Il filo


L'astronauta J guardava stupito davanti a sé. Un lungo filo metallico si stendeva dritto davanti a lui, verticale, sottile e grigio come un graffio nel cielo nero. Avrebbe dovuto chiamare la base, ma si stava attardando a cercare di grattarsi il naso. Maledetta tuta spaziale, maledetto prurito e maledetto filo del cazzo. Ora era lì, a muovere meccanicamente la mano sul vetro del casco, senza sapere che fare.
Il filo veniva dal nulla, e cadeva a precipizio verso la Terra. Ad occhio e croce, si disse J, doveva essere attaccato all'Antartide. Che cosa buffa, pensò. Da vicino sembrava proprio un filo di metallo, di quelli che stanno su qualsiasi cancello di periferia. J agitò il braccio, salutò, girò attorno al filo e gli fece persino delle boccacce. Il filo, però, rimaneva impassibile. J si disse che mai e poi mai l'avrebbe toccato, che diamine. In quella zona del cosmo non c'erano mai stati, ma chissà quale diavolo di scienziato doveva aver progettato quello scherzo.
Mosse la mano verso la tasca e ne estrasse un mattoncino bianco senza peso. Alzò il braccio, regolò l'aggeggio e attese un paio di secondi. Bip, Bip. Bip, Bip. Bip. Nessuna risposta. Doveva essersi allontanato troppo dalla base. Una goccia di sudore gli calò dalla fronte,  per poi scendere lungo il naso che ancora prudeva. Presto avrebbe finito le scorte d'ossigeno, e in quella nebbia scura non aveva niente per orientarsi.
Quel filo, quel maledetto filo. Era lì, da un secondo o da sempre, senza aver bisogno di nulla. Ignorava, o si disinteressava, al fatto che presto J sarebbe morto. La grigia superficie del metallo sembrava guardarlo con un lieve sorriso furbo, un po' pietoso e un po' sornione. La roccia del Purgatorio doveva aver guardato allo stesso modo Ulisse, prima di vederlo affogare con tutta la banda che si era portato appresso, a morire. Ci sono posti in cui gli uomini non dovrebbero arrivare, si disse J. Posti che vuoi raggiungere finchè non ci sei arrivato, finchè non ti accorgi che dietro di te hai bruciato tutti i ponti e davanti ci sono solo solitudine e morte.
A questo punto tanto vale fare qualcosa, si disse J, che ora temeva seriamente di morire affogato nel suo stesso sudore freddo. Tornò a concentrarsi sul filo. Si sgranchì i muscoli, prese un bel respiro. Pensò alla moglie, a sua figlia appena nata. E lo toccò.
Nulla. Proprio un bel nulla. La mano di J strinse un sottile pezzo di metallo, come faceva cento volte al giorno sulla Terra. L'astronauta sudaticcio poteva persino immaginarsi la leggera freschezza che quel ferro doveva dare al tatto, la bellezza della superficie liscia, il riflesso di una luce che non c'era su quel filo così stabile, così concreto.
J ne fu deluso. Si aspettava qualche evento, qualcosa che potesse salvarlo, o almeno rendere la sua morte più interessante. Fece una strana risata tremula, e diede al filo uno strattone, forse sperando di far calare un sipario e svegliarsi nel suo letto. Uno strattone, due strattoni. Tre, quattro. Su, giù. Giù, su. Clac. Lo scatto lo fece sobbalzare. Sentì il filo perdere tensione, sempre appeso a quel cielo scuro, ma staccato dalla Terra. Aveva strappato il filo dall'Antartide.
Lasciò che nelle sue vene si dilatasse la vaga sensazione di aver commesso un qualche danno, a cui sarebbe seguita un'ignota punizione. Un po' come quando aveva rotto il vaso della nonna, trent'anni prima. Un rumore di proiettile squarciò quel vuoto buio. Con lentezza, J abbassò la testa. L'Antartide era spezzata in due. Una lunga linea obliqua tagliava il ghiaccio, per migliaia e migliaia di chilometri. Crac! Crac! Lunghe spaccature si diffondevano dal centro del continente, spargendosi come vene sottili nel mare. Un cratere nero cresceva a vista d'occhio, e gli oceani della Terra non potevano far altro che crollare in questa depressione.  Le nuvole del cielo correvano insieme all'acqua, accompagnando con enormi tempeste i terremoti e i maremoti ormai diffusi su tutto il pianeta. Le spaccature, come un gelido cancro, erano ormai arrivate all'emisfero australe. Le terre emerse, sconquassate da eruzioni ed inondazioni, erano quasi scomparse sotto la forza del mare.
Mentre il pianeta, non più attaccato al cielo, si preparava a collassare su se stesso, J si ricordò, ancora una volta, della sua famiglia. Di sua moglie, di sua figlia appena nata e del figlio che non avrebbe mai avuto. Poi si ricordò del suo naso, che ancora gli dava prurito. Si tolse il casco e se lo grattò.
Ah, che liberazione!


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