Appunti per un'etica

Sentivo il bisogno di fissare alcuni appunti. La struttura del testo è piuttosto segmentata: segue il filo di un'argomentazione che dovevo chiarire prima di tutto a me stesso. Tematicamente, al di là di alcuni excursus, ho cercato di non divagare. Dopo una "parte introduttiva" espongo alcune mie idee. Il percorso, ad un certo punto, si interrompe. Intendo proseguirlo e tirare le somme in un altro post.


Delineare un'etica significa innanzitutto delineare una norma di comportamento. Il tentativo fondante è quello di capire il mondo dell'ethos, dell'agire pratico. Una volta capito questo, risulta evidente la necessità dell'etica, intesa come strumento per interagire con il mondo. Parliamo di necessità perché la stessa interazione non può essere evitata. Non si può scegliere, in altre parole, di non agire. Anche la reticenza e il rifiuto sono atti a tutti gli effetti. In sintesi, l'azione è vita.

“Siamo condannati ad essere liberi”, diceva Sartre. Siamo condannati ad essere agenti, e in quanto agenti siamo condannati ad essere liberi. Non c'è scappatoia. La libertà è un dato di fatto, al di là di tutte le scappatoie. Questa affermazione risulta quasi autoevidente: è una questione di sensazioni. La libertà la sentiamo, sentiamo il rimorso, sentiamo l'indecisione. La filosofia è un discorso umano, un logos solo per noi che ne parliamo. Risulta quindi una perdita di tempo delegare la responsabilità delle nostre azioni ad atomi, dei, condizionamenti sociali. O, per meglio dire, lo si può fare finché si vuole, salvo poi ritrovarsi con la stessa angoscia la sera, quando sono caduti tutti i bei discorsi.

L'etica risulta dunque uno strumento per arginare l'angoscia. Ma cos'è, quest'angoscia? Kierkegaard ne parla per primo come inesorabile possibilità del bene e del male. Tale possibilità sarebbe esplicitata, nel discorso biblico, dalla vicenda di Adamo ed Eva alle prese con l'Albero proibito. In Genesi 2,16 Dio dice ad Adamo:

dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai”

Dio pone Adamo nell'Eden, con tutti i comfort, a condizione che non si arrischi a voler conoscere il bene ed il male. Kierkegaard, profondamente credente, vede nel successivo peccato originale (Gen 3,6) il primo atto malvagio dell'umanità: da esso si dipartono le nozioni contrapposte di male e di bene. Di fronte ad un futuro imprevedibile, tutto da realizzare e in un certo senso infinitamente possibile, si pone la possibilità di fare bene e quella di fare male. La paura di questo male solo possibile è l'angoscia.
Da questo passo si può tuttavia ricavare un'altra conclusione interessante: ragionare di etica è peccato. Il voler determinare da sé il bene ed il male, svelando il loro segreto, è un atto peccaminoso per il credente. Il battesimo espia un peccato di filosofia. L'unica cosa che il dio cristiano chiede in cambio di una vita felice è che nessuno si arrischi a capire le sue leggi. In un modo tipico dell'Antico Testamento e decisamente più legato alla mistica ebraica, Dio vuole essere imperscrutabile. All'uomo non compete l'etica. Ad Adamo ed Eva compete solo il godimento dei frutti del giardino. Del resto, gradiremmo che i nostri criceti si mettessero a discettare di deontologia? Alla lunga, credo di no. Finirebbero per intaccare gli interessi di molti. Così, alle pecorelle di Dio compete solo l'azione, non la riflessione. Ma Eva è un'umana, non una pecorella: c'è dunque da credere che a spingerla al peccato originale sia stato il “sentimento filosofico”, il τραῦμα , la paura della morte che spinge ad afferrare quanto più possibile del mondo prima che quest'ultimo sparisca nelle nebbie del nulla. Del nostro nulla.
Come poscritto a queste riflessioni invito a cogliere la differenza tra il dio ebraico ed il dio del Nuovo Testamento. E' lo stesso Dio a condannare Adamo ed Eva per un peccato di curiosità (e ad annegare il mondo nel diluvio universale) e a mandare sulla Terra Cristo, il dio fattosi uomo? Come può lo Jahvè dell'Antico Testamento trasformarsi da padre padrone a fratello? Può se di mezzo ci passa il Concilio di Nicea (325 d.C.) e l'istituzionalizzazione di una religione strumentale al dominio di una massa polimorfa ed eterogenea quale era quella del popolo romano del IV secolo.


Mistica ed etica si escludono, in conclusione, a vicenda. Attenzione: non si escludono mistica e morale, ovvero norma di comportamento acritica. E' la riflessione ad essere inconciliabile con il mistico. Entrambe acquietano l'angoscia, a quanto pare. Da anti-mistico posso dire che la mia esperienza religiosa ha soltanto acuito, in me, rimorso e dolore. Tuttavia, la storia del pensiero è ricca di mistici degni di nota, anche nelle file dei filosofi. Pensiamo a Kierkegaard, o a Simone Weil.
Dal mio punto di vista, il solo fatto che le conclusioni dell'etica costituiscano una verità pubblica, strutturabile in un linguaggio, basta a dare loro maggiore dignità rispetto alle asserzioni del mistico. Quantomeno, le rende più umane.

Accertato il bisogno dell'etica, occorre capire il suo scopo. In vista di cosa attuiamo la riflessione etica? Molti hanno risposto (e ancora oggi rispondono): in vista della felicità. L'etica del mondo classico è un'etica della felicità. Anzi, talvolta si sublima addirittura in un'etica del piacere. Ciò accade nell'epicureismo, che non a caso è una filosofia della crisi, posteriore ai grandi sistemi di Platone ed Aristotele. Per Epicuro, il piacere è un indicatore naturale della giustezza di un atto di volontà. Se provoca piacere, è giusto. Del resto, per Epicuro abbiamo solo la vita. Non c'è misticismo.

La visione stoica del mondo si contrappone a quella epicurea. Come filosofie della crisi, entrambe sentono il richiamo di un'etica prescrittiva, una sorta di manuale di istruzioni della vita che possa guidare il singolo all'interno del cosmopolita mondo ellenico. Con lo stoicismo, tuttavia, per la prima volta si asserisce l'esistenza di azioni moralmente perfette, valide in quanto tali e non in vista della realizzazione della felicità. Va anche notato che lo stoicismo ospita una carica “mistica” molto più ampia dell'epicureismo. Tutto ciò per dire che è possibile fondare etiche su un principio diverso dalla realizzazione della propria felicità.

Lo sa bene Kant, che nella Critica della ragion pratica distingue l'imperativo morale dai “consigli della prudenza”, atti a perseguire la felicità. Analizziamo le espressioni. Per la felicità Kant ha dei consigli. Asserzioni non vincolanti per il raggiungimento di uno status effimero, non meglio definito, non essenziale all'uomo. L'imperativo è, invece, un comando. Si esprime nella formula del Tu devi. Perché? Se esprimesse l'essenza umana dovrebbe essere qualcosa di naturale, non di imposto. Il fatto è che, per Kant, l'essenza dell'uomo è la razionalità. Tuttavia noi non siamo pura ragione! Da intelletti puri, secondo Kant, non avremmo bisogno di alcuna costrizione. Il “Tu devi” ci indirizza con forza sulla strada giusta, senza pensare alla nostra felicità.

Molti hanno criticato questo aspetto dell'etica kantiana. Lo stesso K. cede il passo, nella Ragion Pura, ad un postulato. E' necessario postulare l'esistenza di Dio come unione di virtù e felicità. In altre parole, l'uomo giusto ha il diritto di aspirare alla felicità. E se su questa terra le due cose non coincidono, coincideranno nell'altro mondo. Almeno, devono coincidere. Facile notare una certa forzatura.

Credo sia possibile muovere una critica a tutto ciò. Questi edifici teorici sono basati, in un modo o in altro, sull'architrave dell'individuo. La felicità è sempre la felicità dell'individuo. Sistemi che cercano la felicità universale (dal liberismo al marxismo) sono teorie politiche, che sono contemporaneamente qualcosa di più e qualcosa di meno delle teorie etiche. Ciò che abbiamo diritto di cercare, in una teoria etica, è di dare un senso alla vita.

Cosa significa dare un senso? Significa dare una direzione. Costruire il proprio futuro in modo da realizzare qualcosa. In un progetto consapevole si risolve l'estrema varietà di possibilità offerte dal futuro. Cosa abbiamo, dunque, da realizzare?

Fuori da qualsiasi mistica, è necessario darsi uno scopo. Senza scopo, il futuro rimane un'angosciante incognita. Questo non significa impostare la propria vita in senso teleologico. Corriamo infatti il pericolo di cadere nella trascendenza, svalutando il presente e il passato in vista di un'unica realizzazione futura da rincorrere. In un discorso ateo e immanente, questo non è altro che buttare la nostra unica risorsa, la vita.

Prendendo spunto dalla lezione di Nietzsche, l'impostazione di una nuova etica dovrà permettere all'uomo di realizzarsi continuamente. Solo in questo modo è possibile conciliare uno scopo nel futuro con la giusta valorizzazione dell'attimo. Ma cosa significa realizzarsi? Attenendoci ad Aristotele, potremmo concludere che realizzarsi significa realizzare la propria essenza.

Qual è l'essenza dell'uomo? Una possibile strada da percorrere è quella della socialità come essenza. Immaginiamo un essere fisiologicamente umano, nato per assurdo dal nulla. Non concepito da alcuna madre, ma gettato nella coscienza senza alcuna causa precedente. Immaginiamo un uomo senza uomini.
Quest'uomo nascerebbe inconcepito in un mondo privo di artefatti. In un mondo o completamente naturale o completamente vuoto. In entrambi i casi non svilupperebbe nessuna delle facoltà che ci differenziano dai primati superiori. In un mondo “naturale” finirebbe per identificarsi con questi ultimi. In un mondo vuoto, al di là della morte per fame e per sete, impazzirebbe senza probabilmente sviluppare nemmeno una coscienza di sé (funzione di cui i primati dispongono tranquillamente).

In una visione delle cose in cui l'essenza sia privata di qualsiasi aura “ontologica” (es. la forma aristotelica) essa risulta essere solo ciò che distingue una cosa da tutte le altre. Le funzioni che ci distinguono dai primati superiori (e da tutti gli altri animali, e da tutto ciò che è altro) sono assimilabili nel linguaggio discorsivo e “tabellare”, presupposto essenziale della scrittura. A sua volta, la scrittura è espressione di un particolare aspetto della condizione umana: la socialità.

In altre parole la nostra essenza è un'essenza sociale. Noi, in quanto uomini, siamo gli altri. Il nostro modo essenziale di rapportarci al mondo è un modo “costruito” sugli altri: dalla struttura linguistica, all'empatia, all'inconscio, alla memoria. Se l'azione è essenziale all'esistenza, l'azione con l'altro (per l'altro, contro l'altro) è essenziale all'esistenza umana. La nozione comune di “individuo” è molto più astratta di quanto si pensi. Se si accetta questo, ecco che si delinea un nuovo orizzonte della riflessione etica: non agire per la “propria” felicità, ma agire per l'Altro, agire per la comunità umana.








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