"Homo sum, humani nihil a me alienum puto."
"Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo."
(Terenzio, Heautontimorumenos)
Il tentativo di impostare un discorso etico si basa sempre su una definizione minima di essenza umana. Perché? Che senso ha questo gesto rispetto al discorso sul bene e sul giusto?
Al di là della pregnanza dei singoli argomenti presentati per la definizione di questa imprendibile essenza, una cosa è certa: la ricerca di un terreno comune ed essenziale è inevitabile, in quanto risponde ad un bisogno preciso del pensatore.
L'etica nasce per regolare l'azione, e in questo tentativo deve vedersela con infiniti casi unici. L'azione è infatti sempre calata in una situazione. Questo asserto è reso evidente non soltanto dall'esperienza comune (chi ha mai visto qualcuno agire nel nulla?) ma anche dall'etimologia: la situ-azione è appunto il sito dell'azione. Il mondo è precisamente l'insieme delle situazioni (o fatti, per dirla con Wittgenstein). Percepito come continuamente mutevole e infinitamente variegato, questo mondo ci presenta dunque, a tutti noi individui e agenti, come sempre nuovo. Non si danno vere costanti ontologiche. In altre parole: non potremo mai dire qualcosa sul mondo che sia certo e sicuro quanto "due più due fa quattro".
Perché? Perché il mondo non è un sistema matematico. Non ci sono assiomi sui quali costruire un sistema del mondo che sia sempre e necessariamente coerente. Il mondo è un oceano senza confini osservato da una barca. Dal canto suo, il mondo matematico è un mare visto dalla spiaggia: magari si perde nell'orizzonte, ma intanto ne vediamo l'inizio.
A chi obietterà che l'uomo vive sulla Terra anche grazie a delle asserzioni costanti (il sole sorge, il fuoco brucia, ecc.), basta ripetere la litania che va da Hume a Popper: ad un'attenta osservazione, tutte queste "costanti" si rivelano in realtà asserzioni molto, molto probabili (ma non necessariamente vere). La deduzione non esiste nel mondo naturale.
A questo punto risulta evidente la particolare posizione dell'etica. Il suo difficile obiettivo è quello di prescrivere (o descrivere) delle costanti rispetto ad azioni sempre diverse, perché poste in situazioni sempre diverse. Schematicamente, possiamo individuare due componenti della situazione: la contingenza e l'individualità dell'agente. Con parole più semplici: come stanno le cose e come si pone il singolo agente rispetto ad esse. Per chi parla di etica si tratta quindi di superare l'individualità senza perdere di vista la molteplicità dei caratteri e le infinite possibilità che una situazione offre.
Superare l'individualità significa uscire fuori dalla dimensione di chi dà un consiglio ad un amico. Il filosofo etico "dà consigli all'umanità": le sue prescrizioni devono risultare utili e di conforto concreto a chiunque. Allo stesso modo, non perdere di vista la molteplicità significa ricordarsi che l'etica è non è teoria fine a sé stessa.
Prendiamo come esempio un famoso problema etico, il cosiddetto trolley problem o problema del treno.
Immaginate di essere il manovratore di un treno lanciato a folle corsa sulle rotaie ad oltre 100 chilometri orari. Di fronte a voi ci sono 5 operai fermi sul binario, intenti a lavorare; provate a frenare, ma i freni non funzionano. Siete presi dalla disperazione perché sapete che se la vettura continuerà la sua corsa travolgerà ed ucciderà i cinque malcapitati.
Improvvisamente vi accorgete che sulla vostra destra si dirama un binario secondario. Anche lì c'è 1 operaio al lavoro, ma solo uno.
Vi rendete conto che potete deviare il treno sul binario laterale: questo significa uccidere 1 uomo, ma salvarne 5.
Che cosa fate?
Considerate ora un'altra versione della storia in cui non siete più il macchinista del treno, ma un osservatore esterno, fermo su un cavalcavia esattamente sopra il binario del treno impazzito (questa volta non c'è più il binario laterale). Il treno è lanciato a tutto velocità e poco oltre ci sono 5 operai che lavorano sul binario. I freni non funzionano e gli operai verranno sicuramente travolti e uccisi. Vi sentite impotenti di fronte a questa catastrofe, ma...! Ma accanto a voi c'è un uomo corpulento appoggiato sul parapetto del cavalcavia. Basterebbe una piccola spinta per farlo cadere sul binario. Lui morirebbe, ma bloccherebbe il treno e i cinque operai si salverebbero.
Sarebbe giusto spingere l'omone giù dal cavalcavia, uccidendolo, ma salvando altre 5 vite?
La formulazione del problema risulta piuttosto interessante soprattutto a causa delle risposte date. La risposta più comune alla prima domanda è favorevole alla svolta. Una volta posta la seconda domanda, però, molti decidono di non gettare l'uomo sui binari. Si tratta di scelte dettate dal senso comune, che condanna l'omicidio. In entrambi i casi è prevista la morte di un uomo per salvarne cinque, e tuttavia, in maniera perfettamente alogica, le risposte sono diverse.
Al di là dell'interesse suscitato dalle risposte, ciò che intendo mettere in dubbio è la validità del problema in quanto problema etico. Formulare questo genere di problemi ha davvero senso per chi si occupa di etica? Credo di no. In una situazione del genere sono coinvolti elementi profondamente umani, quali la creatività, l'esperienza vissuta, la capacità di giudizio. Di conseguenza, le scelte non sono mai limitate, ma sempre tendenzialmente infinite. Nel caso del treno, cosa ci impedisce di urlare agli uomini di spostarsi, di gettarci noi stessi per salvare le loro vite, di interrompere la corsa del treno con mezzi di fortuna?
In sintesi, c'è il rischio di spostare il discorso etico su un piano esclusivamente teorico, un piano in cui le azioni possibili sono costitutivamente limitate, proprio come accade nel ragionamento matematico. Il ragionamento etico che vuole essere tale deve sempre mantenersi aperto all'infinità di possibilità caratterizzante la condizione umana.
Detto questo, occorre indagare lo statuto delle asserzioni etiche: se esse possono essere necessariamente vere o soltanto probabili. E' possibile la deduzione in campo etico?
Per rispondere, possiamo richiamarci ad Aristotele ed alla sua classificazione delle scienze. Lo Stagirita distingue scienze teoretiche (fisica, metafisica e matematica), scienze pratiche (etica e politica) e scienze poietiche (architettura, poetica). Solo le prime trattano oggetti che non dipendono dall'uomo (appunto per questo si possono avere delle ragionevoli riserve sul posto assegnato alla matematica). Le altre riguardano quella che potremmo definire sfera dell'umanità: problemi prettamente umani a cui di devo dare risposte a misura d'uomo.
L'etica è la scienza pratica per eccellenza: il suo discorso dunque parte dagli uomini, non dalle cose. Il vantaggio fondamentale caratteristico del filosofo etico è che il filosofo è un uomo, e quindi ha l'oggetto del suo studio perfettamente sottomano. Sono convinto che molti dei problemi "filosofici" attuali derivino da una sorta di disprezzo per la sfera umana. Il bisogno di verità, per esempio, è un bisogno prettamente umano. Allora perché cercarla nei cieli e nelle cose? Non è possibile cercarla fra gli uomini senza cadere nel relativismo? Non è possibile fondare una nuova oggettività nella dimensione sociale? Non si potrebbe dire che è vero, è buono, è bello, ciò che è concordemente vero, buono e bello?
Ho già insistito sull'essenza linguistica e politica dell'uomo. La sfera umana non è altro che una sfera di parole, di comunicazione, di dibattito, in cui è possibile realizzare un concreto progresso storico grazie alla dialettica, allo scontro ed alla sintesi delle tesi argomentate. Di volta in volta ci si innesta sul precedente per costruire qualcosa in più.
Il cerchio si chiude: se l'uomo è un animale naturalmente politico, ecco che le scienze umane devono seguire una metodologia politica. A pensarci bene, ecco che l'etica (e con essa quasi tutti gli altri ambiti della filosofia) non diventa altro che una particolare scienza "popperiana". Non si raggiunge il vero, ma il "meno falso", in un processo di continua rifinitura: l'unica differenza è che al posto dell'esperimento c'è l'argomentazione. Mi sembra, questo, un modo corretto di impostare la questione filosofica. Si tratta, in ogni caso, di una questione necessaria per affrontare problemi che la scienza non tocca affatto e che l'arte si limita a rappresentare intuitivamente.
Un'altra importante conseguenza della dimensione umana dell'etica è la possibilità di basarsi su un particolare elemento: il trascendentale. Prima di essere aggredito dai puristi, preciso che il termine non è usato in maniera propria, nel senso gnoseologico kantiano. Con trascendentale mi riferisco ad un qualcosa che riguarda necessariamente tutti gli uomini, qualcosa di universale nella sfera umana.
Ecco che l'etica, al di là della storia e delle diversità geografiche tanto care ai relativisti, ha trovato la sua base. Scienza della sfera umana, può far comodamente uso del trascendentale.
Ma, in pratica, cos'è trascendentale? Per ora, possiamo individuare due trascendentali certi: la nascita e la morte. La nascita dalla madre, su cui Freud fonda la sua psicoanalisi, è anche la nascita, per colui che nasce, dell'altro. Nessuno nasce dal nulla e tutti veniamo fuori dallo stesso posto. In altri termini, la nostra prima esperienza è l'esperienza dell'altro, dapprima come unione (nel grembo) e poi come inesorabile distacco. Allo stesso modo, la morte è inesorabile: dobbiamo morire e lo sappiamo. Gli animali, come diceva Fernando Savater, "muoiono immortalmente", in quanto non sanno di dover morire. Noi lo sappiamo: siamo mortali. E ne facciamo esperienza, ancora una volta, attraverso l'altro. La morte non può essere nascosta sotto una coltre di indifferenza, nonostante Epicuro. La morte è lì ed è, per dirla con Heidegger, una possibilità con cui possiamo o meno rapportarci coscenziosamente.
Alla fine di questa seconda parte di appunti nascono importanti domande:
1. Com'è fatta un'etica calibrata sulla nascita e sulla morte?
2. Quale ruolo ha "l'altro" nella condizione umana? E' esso un altro trascendentale?
Se si vuole conservare la definizione di uomo come animale politico, bisogna dimostrare che alla domanda 2. si può rispondere solo affermativamente.
"Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre?
Senza madre non si può amare.
Senza madre non si può morire."
(Hesse, Narciso e Boccadoro)