Appunti per un'etica 2

(Continua da "Appunti per un'etica")



"Homo sum, humani nihil a me alienum puto."

"Sono un uomo, nulla che  sia umano mi è estraneo."

(Terenzio, Heautontimorumenos)


Il tentativo di impostare un discorso etico si basa sempre su una definizione minima di essenza umana.  Perché? Che senso ha questo gesto rispetto al discorso sul bene e sul giusto?

Al di là della pregnanza dei singoli argomenti presentati per la definizione di questa imprendibile essenza, una cosa è certa: la ricerca di un terreno comune ed essenziale è inevitabile, in quanto risponde ad un bisogno preciso del pensatore. 

L'etica nasce per regolare l'azione, e in questo tentativo deve vedersela con infiniti casi unici. L'azione è infatti sempre calata in una situazione. Questo asserto è reso evidente non soltanto dall'esperienza comune (chi ha mai visto qualcuno agire nel nulla?) ma anche dall'etimologia: la situ-azione è appunto il sito dell'azione. Il mondo è precisamente l'insieme delle situazioni (o fatti, per dirla con Wittgenstein). Percepito come continuamente mutevole e infinitamente variegato, questo mondo ci presenta dunque, a tutti noi individui e agenti, come sempre nuovo. Non si danno vere costanti ontologiche. In altre parole: non potremo mai dire qualcosa sul mondo che sia certo e sicuro quanto "due più due fa quattro". 

Perché? Perché il mondo non è un sistema matematico. Non ci sono assiomi sui quali costruire un sistema del mondo che sia sempre e necessariamente coerente. Il mondo è un oceano senza confini osservato da una barca. Dal canto suo, il mondo matematico è un mare visto dalla spiaggia: magari si perde nell'orizzonte, ma intanto ne vediamo l'inizio.

A chi obietterà che l'uomo vive sulla Terra anche grazie a delle asserzioni costanti (il sole sorge, il fuoco brucia, ecc.), basta ripetere la litania che va da Hume a Popper: ad un'attenta osservazione, tutte queste "costanti" si rivelano in realtà asserzioni molto, molto probabili (ma non necessariamente vere). La deduzione non esiste nel mondo naturale.


A questo punto risulta evidente la particolare posizione dell'etica. Il suo difficile obiettivo è quello di prescrivere (o descrivere) delle costanti rispetto ad azioni sempre diverse, perché poste in situazioni sempre diverse. Schematicamente, possiamo individuare due componenti della situazione: la contingenza e l'individualità dell'agente. Con parole più semplici: come stanno le cose e come si pone il singolo agente rispetto ad esse. Per chi parla di etica si tratta quindi di superare l'individualità senza perdere di vista la molteplicità dei caratteri e le infinite possibilità che una situazione offre.


Superare l'individualità significa uscire fuori dalla dimensione di chi dà un consiglio ad un amico. Il filosofo etico "dà consigli all'umanità": le sue prescrizioni devono risultare utili e di conforto concreto a chiunque. Allo stesso modo, non perdere di vista la molteplicità significa ricordarsi che l'etica è non è teoria fine a sé stessa. 

Prendiamo come esempio un famoso problema etico, il cosiddetto trolley problem o problema del treno.

Immaginate di essere il manovratore di un treno lanciato a folle corsa sulle rotaie ad oltre 100 chilometri orari. Di fronte a voi ci sono 5 operai fermi sul binario, intenti a lavorare; provate a frenare, ma i freni non funzionano. Siete presi dalla disperazione perché sapete che se la vettura continuerà la sua corsa travolgerà ed ucciderà i cinque malcapitati.

Improvvisamente vi accorgete che sulla vostra destra si dirama un binario secondario. Anche lì c'è 1 operaio al lavoro, ma solo uno.
Vi rendete conto che potete deviare il treno sul binario laterale: questo significa uccidere 1 uomo, ma salvarne 5.
Che cosa fate?


Considerate ora un'altra versione della storia in cui non siete più il macchinista del treno, ma un osservatore esterno, fermo su un cavalcavia esattamente sopra il binario del treno impazzito (questa volta non c'è più il binario laterale). Il treno è lanciato a tutto velocità e poco oltre ci sono 5 operai che lavorano sul binario. I freni non funzionano e gli operai verranno sicuramente travolti e uccisi. Vi sentite impotenti di fronte a questa catastrofe, ma...! Ma accanto a voi c'è un uomo corpulento appoggiato sul parapetto del cavalcavia. Basterebbe una piccola spinta per farlo cadere sul binario. Lui morirebbe, ma bloccherebbe il treno e i cinque operai si salverebbero.
Sarebbe giusto spingere l'omone giù dal cavalcavia, uccidendolo, ma salvando altre 5 vite?

La formulazione del problema risulta piuttosto interessante soprattutto a causa delle risposte date. La risposta più comune alla prima domanda è favorevole alla svolta. Una volta posta la seconda domanda, però, molti decidono di non gettare l'uomo sui binari. Si tratta di scelte dettate dal senso comune, che condanna l'omicidio. In entrambi i casi è prevista la morte di un uomo per salvarne cinque, e tuttavia, in maniera perfettamente alogica, le risposte sono diverse.
Al di là dell'interesse suscitato dalle risposte, ciò che intendo mettere in dubbio è la validità del problema in quanto problema etico. Formulare questo genere di problemi ha davvero senso per chi si occupa di etica? Credo di no. In una situazione del genere sono coinvolti elementi profondamente umani, quali la creatività, l'esperienza vissuta, la capacità di giudizio. Di conseguenza, le scelte non sono mai limitate, ma sempre tendenzialmente infinite. Nel caso del treno, cosa ci impedisce di urlare agli uomini di spostarsi, di gettarci noi stessi per salvare le loro vite, di interrompere la corsa del treno con mezzi di fortuna?
In sintesi, c'è il rischio di spostare il discorso etico su un piano esclusivamente teorico, un piano in cui le azioni possibili sono costitutivamente limitate, proprio come accade nel ragionamento matematico. Il ragionamento etico che vuole essere tale deve sempre mantenersi aperto all'infinità di possibilità caratterizzante la condizione umana.
Detto questo, occorre indagare lo statuto delle asserzioni etiche: se esse possono essere necessariamente vere o soltanto probabili. E' possibile la deduzione in campo etico?
Per rispondere, possiamo richiamarci ad Aristotele ed alla sua classificazione delle scienze. Lo Stagirita distingue scienze teoretiche (fisica, metafisica e matematica), scienze pratiche (etica e politica) e scienze poietiche (architettura, poetica). Solo le prime trattano oggetti che non dipendono dall'uomo (appunto per questo si possono avere delle ragionevoli riserve sul posto assegnato alla matematica). Le altre riguardano quella che potremmo definire sfera dell'umanità: problemi prettamente umani a cui di devo dare risposte a misura d'uomo.
L'etica è la scienza pratica per eccellenza: il suo discorso dunque parte dagli uomini, non dalle cose. Il vantaggio fondamentale caratteristico del filosofo etico è che il filosofo è un uomo, e quindi ha l'oggetto del suo studio perfettamente sottomano. Sono convinto che molti dei problemi "filosofici" attuali derivino da una sorta di disprezzo per la sfera umana. Il bisogno di verità, per esempio, è un bisogno prettamente umano. Allora perché cercarla nei cieli e nelle cose? Non è possibile cercarla fra gli uomini senza cadere nel relativismo? Non è possibile fondare una nuova oggettività nella dimensione sociale? Non si potrebbe dire che è vero, è buono, è bello, ciò che è concordemente vero, buono e bello?
Ho già insistito sull'essenza linguistica e politica dell'uomo. La sfera umana non è altro che una sfera di parole, di comunicazione, di dibattito, in cui è possibile realizzare un concreto progresso storico grazie alla dialettica, allo scontro ed alla sintesi delle tesi argomentate. Di volta in volta ci si innesta sul precedente per costruire qualcosa in più
Il cerchio si chiude: se l'uomo è un animale naturalmente politico, ecco che le scienze umane devono seguire una metodologia politica. A pensarci bene, ecco che l'etica (e con essa quasi tutti gli altri ambiti della filosofia) non diventa altro che una particolare scienza "popperiana". Non si raggiunge il vero, ma il "meno falso", in un processo di continua rifinitura: l'unica differenza è che al posto dell'esperimento c'è l'argomentazione. Mi sembra, questo, un modo corretto di impostare la questione filosofica. Si tratta, in ogni caso, di una questione necessaria per affrontare problemi che la scienza non tocca  affatto e che l'arte si limita a rappresentare intuitivamente.
Un'altra importante conseguenza della dimensione umana dell'etica è la possibilità di basarsi su un particolare elemento: il trascendentale. Prima di essere aggredito dai puristi, preciso che il termine non è usato in maniera propria, nel senso gnoseologico kantiano. Con trascendentale mi riferisco ad un qualcosa che riguarda necessariamente tutti gli uomini, qualcosa di universale nella sfera umana.
Ecco che l'etica, al di là della storia e delle diversità geografiche tanto care ai relativisti, ha trovato la sua base. Scienza della sfera umana, può far comodamente uso del trascendentale.
Ma, in pratica, cos'è trascendentale? Per ora, possiamo individuare due trascendentali certi: la nascita e la morte. La nascita dalla madre, su cui Freud fonda la sua psicoanalisi, è anche la nascita, per colui che nasce, dell'altro. Nessuno nasce dal nulla e tutti veniamo fuori dallo stesso posto. In altri termini, la nostra prima esperienza è l'esperienza dell'altro, dapprima come unione (nel grembo) e poi come inesorabile distacco. Allo stesso modo, la morte è inesorabile: dobbiamo morire e lo sappiamo. Gli animali, come diceva Fernando Savater, "muoiono immortalmente", in quanto non sanno di dover morire. Noi lo sappiamo: siamo mortali. E ne facciamo esperienza, ancora una volta, attraverso l'altro. La morte non può essere nascosta sotto una coltre di indifferenza, nonostante Epicuro. La morte è lì ed è, per dirla con Heidegger, una possibilità con cui possiamo o meno rapportarci coscenziosamente.
Alla fine di questa seconda parte di appunti nascono importanti domande:
1. Com'è fatta un'etica calibrata sulla nascita e sulla morte? 
2. Quale ruolo ha "l'altro" nella condizione umana? E' esso un altro trascendentale? 
Se si vuole conservare la definizione di uomo come animale politico, bisogna dimostrare che alla domanda 2. si può rispondere solo affermativamente.


"Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? 
Senza madre non si può amare.
Senza madre non si può morire."

(Hesse, Narciso e Boccadoro)




Appunti per un'etica

Sentivo il bisogno di fissare alcuni appunti. La struttura del testo è piuttosto segmentata: segue il filo di un'argomentazione che dovevo chiarire prima di tutto a me stesso. Tematicamente, al di là di alcuni excursus, ho cercato di non divagare. Dopo una "parte introduttiva" espongo alcune mie idee. Il percorso, ad un certo punto, si interrompe. Intendo proseguirlo e tirare le somme in un altro post.


Delineare un'etica significa innanzitutto delineare una norma di comportamento. Il tentativo fondante è quello di capire il mondo dell'ethos, dell'agire pratico. Una volta capito questo, risulta evidente la necessità dell'etica, intesa come strumento per interagire con il mondo. Parliamo di necessità perché la stessa interazione non può essere evitata. Non si può scegliere, in altre parole, di non agire. Anche la reticenza e il rifiuto sono atti a tutti gli effetti. In sintesi, l'azione è vita.

“Siamo condannati ad essere liberi”, diceva Sartre. Siamo condannati ad essere agenti, e in quanto agenti siamo condannati ad essere liberi. Non c'è scappatoia. La libertà è un dato di fatto, al di là di tutte le scappatoie. Questa affermazione risulta quasi autoevidente: è una questione di sensazioni. La libertà la sentiamo, sentiamo il rimorso, sentiamo l'indecisione. La filosofia è un discorso umano, un logos solo per noi che ne parliamo. Risulta quindi una perdita di tempo delegare la responsabilità delle nostre azioni ad atomi, dei, condizionamenti sociali. O, per meglio dire, lo si può fare finché si vuole, salvo poi ritrovarsi con la stessa angoscia la sera, quando sono caduti tutti i bei discorsi.

L'etica risulta dunque uno strumento per arginare l'angoscia. Ma cos'è, quest'angoscia? Kierkegaard ne parla per primo come inesorabile possibilità del bene e del male. Tale possibilità sarebbe esplicitata, nel discorso biblico, dalla vicenda di Adamo ed Eva alle prese con l'Albero proibito. In Genesi 2,16 Dio dice ad Adamo:

dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai”

Dio pone Adamo nell'Eden, con tutti i comfort, a condizione che non si arrischi a voler conoscere il bene ed il male. Kierkegaard, profondamente credente, vede nel successivo peccato originale (Gen 3,6) il primo atto malvagio dell'umanità: da esso si dipartono le nozioni contrapposte di male e di bene. Di fronte ad un futuro imprevedibile, tutto da realizzare e in un certo senso infinitamente possibile, si pone la possibilità di fare bene e quella di fare male. La paura di questo male solo possibile è l'angoscia.
Da questo passo si può tuttavia ricavare un'altra conclusione interessante: ragionare di etica è peccato. Il voler determinare da sé il bene ed il male, svelando il loro segreto, è un atto peccaminoso per il credente. Il battesimo espia un peccato di filosofia. L'unica cosa che il dio cristiano chiede in cambio di una vita felice è che nessuno si arrischi a capire le sue leggi. In un modo tipico dell'Antico Testamento e decisamente più legato alla mistica ebraica, Dio vuole essere imperscrutabile. All'uomo non compete l'etica. Ad Adamo ed Eva compete solo il godimento dei frutti del giardino. Del resto, gradiremmo che i nostri criceti si mettessero a discettare di deontologia? Alla lunga, credo di no. Finirebbero per intaccare gli interessi di molti. Così, alle pecorelle di Dio compete solo l'azione, non la riflessione. Ma Eva è un'umana, non una pecorella: c'è dunque da credere che a spingerla al peccato originale sia stato il “sentimento filosofico”, il τραῦμα , la paura della morte che spinge ad afferrare quanto più possibile del mondo prima che quest'ultimo sparisca nelle nebbie del nulla. Del nostro nulla.
Come poscritto a queste riflessioni invito a cogliere la differenza tra il dio ebraico ed il dio del Nuovo Testamento. E' lo stesso Dio a condannare Adamo ed Eva per un peccato di curiosità (e ad annegare il mondo nel diluvio universale) e a mandare sulla Terra Cristo, il dio fattosi uomo? Come può lo Jahvè dell'Antico Testamento trasformarsi da padre padrone a fratello? Può se di mezzo ci passa il Concilio di Nicea (325 d.C.) e l'istituzionalizzazione di una religione strumentale al dominio di una massa polimorfa ed eterogenea quale era quella del popolo romano del IV secolo.


Mistica ed etica si escludono, in conclusione, a vicenda. Attenzione: non si escludono mistica e morale, ovvero norma di comportamento acritica. E' la riflessione ad essere inconciliabile con il mistico. Entrambe acquietano l'angoscia, a quanto pare. Da anti-mistico posso dire che la mia esperienza religiosa ha soltanto acuito, in me, rimorso e dolore. Tuttavia, la storia del pensiero è ricca di mistici degni di nota, anche nelle file dei filosofi. Pensiamo a Kierkegaard, o a Simone Weil.
Dal mio punto di vista, il solo fatto che le conclusioni dell'etica costituiscano una verità pubblica, strutturabile in un linguaggio, basta a dare loro maggiore dignità rispetto alle asserzioni del mistico. Quantomeno, le rende più umane.

Accertato il bisogno dell'etica, occorre capire il suo scopo. In vista di cosa attuiamo la riflessione etica? Molti hanno risposto (e ancora oggi rispondono): in vista della felicità. L'etica del mondo classico è un'etica della felicità. Anzi, talvolta si sublima addirittura in un'etica del piacere. Ciò accade nell'epicureismo, che non a caso è una filosofia della crisi, posteriore ai grandi sistemi di Platone ed Aristotele. Per Epicuro, il piacere è un indicatore naturale della giustezza di un atto di volontà. Se provoca piacere, è giusto. Del resto, per Epicuro abbiamo solo la vita. Non c'è misticismo.

La visione stoica del mondo si contrappone a quella epicurea. Come filosofie della crisi, entrambe sentono il richiamo di un'etica prescrittiva, una sorta di manuale di istruzioni della vita che possa guidare il singolo all'interno del cosmopolita mondo ellenico. Con lo stoicismo, tuttavia, per la prima volta si asserisce l'esistenza di azioni moralmente perfette, valide in quanto tali e non in vista della realizzazione della felicità. Va anche notato che lo stoicismo ospita una carica “mistica” molto più ampia dell'epicureismo. Tutto ciò per dire che è possibile fondare etiche su un principio diverso dalla realizzazione della propria felicità.

Lo sa bene Kant, che nella Critica della ragion pratica distingue l'imperativo morale dai “consigli della prudenza”, atti a perseguire la felicità. Analizziamo le espressioni. Per la felicità Kant ha dei consigli. Asserzioni non vincolanti per il raggiungimento di uno status effimero, non meglio definito, non essenziale all'uomo. L'imperativo è, invece, un comando. Si esprime nella formula del Tu devi. Perché? Se esprimesse l'essenza umana dovrebbe essere qualcosa di naturale, non di imposto. Il fatto è che, per Kant, l'essenza dell'uomo è la razionalità. Tuttavia noi non siamo pura ragione! Da intelletti puri, secondo Kant, non avremmo bisogno di alcuna costrizione. Il “Tu devi” ci indirizza con forza sulla strada giusta, senza pensare alla nostra felicità.

Molti hanno criticato questo aspetto dell'etica kantiana. Lo stesso K. cede il passo, nella Ragion Pura, ad un postulato. E' necessario postulare l'esistenza di Dio come unione di virtù e felicità. In altre parole, l'uomo giusto ha il diritto di aspirare alla felicità. E se su questa terra le due cose non coincidono, coincideranno nell'altro mondo. Almeno, devono coincidere. Facile notare una certa forzatura.

Credo sia possibile muovere una critica a tutto ciò. Questi edifici teorici sono basati, in un modo o in altro, sull'architrave dell'individuo. La felicità è sempre la felicità dell'individuo. Sistemi che cercano la felicità universale (dal liberismo al marxismo) sono teorie politiche, che sono contemporaneamente qualcosa di più e qualcosa di meno delle teorie etiche. Ciò che abbiamo diritto di cercare, in una teoria etica, è di dare un senso alla vita.

Cosa significa dare un senso? Significa dare una direzione. Costruire il proprio futuro in modo da realizzare qualcosa. In un progetto consapevole si risolve l'estrema varietà di possibilità offerte dal futuro. Cosa abbiamo, dunque, da realizzare?

Fuori da qualsiasi mistica, è necessario darsi uno scopo. Senza scopo, il futuro rimane un'angosciante incognita. Questo non significa impostare la propria vita in senso teleologico. Corriamo infatti il pericolo di cadere nella trascendenza, svalutando il presente e il passato in vista di un'unica realizzazione futura da rincorrere. In un discorso ateo e immanente, questo non è altro che buttare la nostra unica risorsa, la vita.

Prendendo spunto dalla lezione di Nietzsche, l'impostazione di una nuova etica dovrà permettere all'uomo di realizzarsi continuamente. Solo in questo modo è possibile conciliare uno scopo nel futuro con la giusta valorizzazione dell'attimo. Ma cosa significa realizzarsi? Attenendoci ad Aristotele, potremmo concludere che realizzarsi significa realizzare la propria essenza.

Qual è l'essenza dell'uomo? Una possibile strada da percorrere è quella della socialità come essenza. Immaginiamo un essere fisiologicamente umano, nato per assurdo dal nulla. Non concepito da alcuna madre, ma gettato nella coscienza senza alcuna causa precedente. Immaginiamo un uomo senza uomini.
Quest'uomo nascerebbe inconcepito in un mondo privo di artefatti. In un mondo o completamente naturale o completamente vuoto. In entrambi i casi non svilupperebbe nessuna delle facoltà che ci differenziano dai primati superiori. In un mondo “naturale” finirebbe per identificarsi con questi ultimi. In un mondo vuoto, al di là della morte per fame e per sete, impazzirebbe senza probabilmente sviluppare nemmeno una coscienza di sé (funzione di cui i primati dispongono tranquillamente).

In una visione delle cose in cui l'essenza sia privata di qualsiasi aura “ontologica” (es. la forma aristotelica) essa risulta essere solo ciò che distingue una cosa da tutte le altre. Le funzioni che ci distinguono dai primati superiori (e da tutti gli altri animali, e da tutto ciò che è altro) sono assimilabili nel linguaggio discorsivo e “tabellare”, presupposto essenziale della scrittura. A sua volta, la scrittura è espressione di un particolare aspetto della condizione umana: la socialità.

In altre parole la nostra essenza è un'essenza sociale. Noi, in quanto uomini, siamo gli altri. Il nostro modo essenziale di rapportarci al mondo è un modo “costruito” sugli altri: dalla struttura linguistica, all'empatia, all'inconscio, alla memoria. Se l'azione è essenziale all'esistenza, l'azione con l'altro (per l'altro, contro l'altro) è essenziale all'esistenza umana. La nozione comune di “individuo” è molto più astratta di quanto si pensi. Se si accetta questo, ecco che si delinea un nuovo orizzonte della riflessione etica: non agire per la “propria” felicità, ma agire per l'Altro, agire per la comunità umana.








Notte

Il mio corpo ritto nella notte
è l'amore tra il cielo 
e la terra.

A piedi nudi sento

la resistenza disperata dell'asfalto.
Alzo lo sguardo:
il cielo immobile mi carezza col vento.

Velluto nero, nero e silenzio.

Sforzo grandioso nella pulsione della terra.

Li sento entrambi, e capisco:
il cielo attraverso le mie ossa
dolcemente ama la terra.
La terra attraverso la mia mente
accetta i suoi doni.

L'abbraccio del cielo
sfiora stupito la vita e la morte.
Si accorge che la terra
è vecchia. Era imbellettata di verde,
ora è una cicatrice grigia.

E' un amore malsano.
E' un amore necessario.

Quando morirò, steso nella polvere
sputando la coscienza e il sangue
chi sosterrà l'abbraccio?
L'amplesso si scioglierà
e porterà con sé
quella feroce tristezza
propria soltanto degli amori finiti.