Piccolo
libro della distruzione
“Chi
dubita sa, e sa il più che si possa sapere.”
(G.
Leopardi, Zibaldone)
Introduzione
Questo
progetto nasce in risposta ad una scomparsa. Non si tratta di una
sparizione improvvisa, di un allarme da annunciare: è piuttosto un
dileguarsi lento, sottilmente imposto da quello che potremmo definire
il nostro “mondo culturale”. Senza tanto chiasso, la facoltà
di dubitare ha scelto di
andarsene. Non sappiamo cosa l'ha spaventata. Sappiamo soltanto che,
testarda, torna nella testa di ogni bambino di tre anni durante la
cosiddetta “età dei perché”, per poi spegnersi immancabilmente
con la crescita. Nell'ottica dominante, il bambino che cresce è il
bambino che si adatta, smettendo di porre domande assurde sui perché
più inafferrabili del mondo. Il dubbio radicale è infantile,
antisociale: a sei anni il giovane intelletto deve essere già pronto
a sorbirsi almeno una decina d'anni di dottrine calate dall'alto in
maniera più o meno forzata.
Indagare
i meccanismi di questo lento soffocamento del diritto a domandare è
un compito sicuramente complesso. Più semplice e forse più
istintivo è invece, ancora una volta, chiedersi il perché.
Perché dobbiamo rinunciare alla domanda? Perché il bambino si deve
accontentare di un indulgente sorriso di compatimento quando cerca
delle risposte? Perché il bambino cresciuto male (il filosofo,
nel senso etimologico del termine) deve risultare come deviante
rispetto alla comunità? Si può pensare che le cose debbano andare
per forza così, che la condizione umana ordinaria sia quella
dell'adagiarsi nel presente e starci caldi,
come diceva Svevo.
Io
non lo credo. Il dubbio è una forza critica,
essenziale per una qualsiasi idea di progresso. La stasi conserva la
società come una gabbia di metallo conserva una pianta: niente
danni, niente rischi, fino alla morte per appassimento. La questione
del diritto alla crisi è una questione di sopravvivenza: è
necessario che
l'attitudine critica, il dibattito, la discussione filosofica
ritornino ad essere forze organiche del mondo comunitario.
Il
discorso di tutti i giorni è intasato da una solida sfiducia nei
confronti del dubbio, quasi non ci fosse tempo per permettersi il
lusso di essere scettici. In questa specie di fast food dei pensieri,
dove ognuno si serve dell'ideale più utile e meno ingombrante, non
possiamo dimenticare che la filosofia dovrebbe anche un compito
positivo, costruttivo.
Per questo ci sono i filosofi. Questo discorso, tuttavia, parla al
non-filosofo, e lo invita a recuperare questo sacrosanto gusto
del dubbio. La “distruzione”
del titolo è il tentativo di abbattere qualche certezza comune,
qualche colonna della cultura condivisa. Scopo dichiarato di queste
parole è mettere in crisi. I contenuti sono intenzionalmente privi
di un'effettiva pars costruens.
La forma è sintetica e prosegue per accenni e richiami.
La
facoltà del perché, fortunatamente, sembra essere innata nell'uomo:
nessun libro la può costruire. Si tratta piuttosto di disotterrarla.
Il terreno è duro ed i mezzi sono scarsi. Tuttavia, si può sempre
provare. In fondo, perché no?
Dio
Nella
sua essenza, Dio è trascendenza.
Un essere perfetto, inafferrabile, eterno, onnisciente ed
onnipresente. Chi potrebbe mai vederlo?
Chi potrebbe mai verificarlo razionalmente?
Eppure, il suo concetto
c'è, tant'è vero che se ne può parlare, se ne può discutere. Ogni
uomo, prima o poi, deve affrontarlo. Da dove viene, dunque,
quest'idea? La domanda non è affatto speculativa: basta pensare
all'influenza delle pratiche religiose nel mondo culturale,
abitato da credenti come da atei ed agnostici.
Il
cristiano ortodosso potrebbe rispondere in tre modi:
- L'idea di Dio è innata nell'uomo.
- L'idea di Dio è acquisibile attraverso l'educazione all'ortodossia e si fonda sulla fede nella sua esistenza.
- L'idea di Dio si fonda su prove razionali più o meno rafforzate dalla fede.
La
risposta dell'ateo è invece unica: Dio è una costruzione mentale
dell'uomo, rispondente ad un bisogno più o meno legittimo
dell'individuo e spesso legata a forme di oppressione all'interno
della comunità.
Il
limite del discorso legato ad un principio di fede
sta nel fatto che tale principio è mistico, irrazionale, “superiore”
al discorso razionale: in un dibattito il fedele può sempre tornare
al “credo per fede”,
senza che si giunga ad alcuna conclusione. Analizzando, l'espressione
può essere ridotta a un “credo per credenza”,
o più semplicemente ad un “ci credo perché ci credo”.
Il misticismo, nonostante l'elevato numero di santi in circolazione,
produce ancora verità private.
Ma quando una verità è tale? Senza addentrarci nei meandri del
concetto, potremmo basare lo statuto di verità di un'asserzione
sulla sua verificabilità da
parte della comunità umana. In altre parole, una verità
privata non ha diritto di
esistere. Essa può ridursi semplicemente ad una convinzione.
Chiariamo con un esempio.
Un
uomo uccide una persona x. Dopo qualche tempo viene scoperto ed
arrestato. Condotto in tribunale, alla domanda “Perché ha ucciso
x?” risponde “Credo per fede che x sia ancora vivo e vegeto”.
Esito
probabile della faccenda, per l'uomo, è la concessione
dell'infermità mentale. Il credente che asserisce di credere in un
Dio per fede è invece libero di utilizzare questa sua verità come
argomento all'interno del dibattito teologico. Un cristiano potrebbe
ribattere, a questo punto, che il decesso di x è effettivamente
verificabile in ogni momento attraverso i mezzi della scienza umana,
mentre l'inesistenza di Dio non gode di tale verificabilità. Al
furbo cristiano va però fatto notare che il mondo oggi conosciuto
dalla scienza si spiega benissimo da solo, senza la necessità di
chiamare in causa Dio. All'interno del mondo conosciuto le nostre
spiegazioni dei fenomeni sono sufficientemente esaurienti. Detto ciò,
invocare Dio equivale quasi a rinnegare l'evidenza: ipotizzare un
ente che contenga contemporaneamente una serie di proprietà mai
viste nell'esperienza senza che ce ne sia la necessità richiede una buona dose di immaginazione. Le asserzioni “Dio
esiste” e “x è vivo” sono ugualmente controintuitive.
Parlare di Dio come causa di fenomeni ancora non spiegati dalla
scienza non è altro che una riproposizione dell'argomento per fede,
mortificante per le possibilità umane e mortificata dalla storia e
dal progresso scientifico (senza bisogno di cadere nello scientismo,
rifletteremo sul significato di queste espressioni nel discorso
legato alla scienza).
Attribuire un carattere
innato all'idea di Dio è evidentemente fuorviante. Gli argomenti
avanzati da Locke sono infatti sufficienti per abbandonare questa
ipotesi: se Dio fosse nelle nelle nostre teste ancora prima di venire
al mondo, saremmo tutti cristiani (in quanto umani) e le parole che
sto scrivendo non avrebbero motivo di esistere. Esistono invece
moltissime religioni, e alcuni popoli sono addirittura privi del
concetto del divino.
Le
prove “razionali” sono quelle che offrono il più ampio margine
di discussione. Anima di un dibattito ancora aperto, esse non possono
essere sintetizzate senza diventare sterili. Mi limito qui a
presentare un'osservazione ricavata dalla Critica della ragion
pura di Kant. Tutti ci chiediamo quale sia la causa del mondo.
Ogni cosa nel mondo, infatti, sembra avere una causa. La causa del
mondo, però, deve essere qualcosa di non causato, una cosa
che si spiega da sé (necessaria) rispetto ad un mondo da
spiegare (contingente). Qualcosa di necessario deve dunque
essere causa di sé stesso. Un Dio auto-creato ed eterno sembra
essere una buona spiegazione: qualcosa di necessario deve
esistere, quindi perché non renderlo intelligente, venerabile,
vendicativo, barbuto? Ma, in tutto questo, siamo proprio sicuri che
la causa sia nelle cose? Gli oggetti stanno in silenzio, non
ci avvertono di causarsi reciprocamente. Una palla da biliardo (A),
su un tavolo, ne urta un'altra (B). B si muove in una direzione. Non
sorge il dubbio che siamo noi a compiere il collegamento
“l'urto di A è causa del movimento di B”?. Non è
quantomeno legittimo ipotizzare che la causalità sia soltanto
nella nostra testa? O ancora, ammettendo che essa sia connaturata
alle interazioni fra oggetti, non è possibile pensare che essa sia
limitata al mondo da noi conosciuto, il mondo dell'esperienza
quotidiana? Le ultime scoperte nell'ambito della fisica quantistica
suffragano sempre di più quest'ultima ipotesi. Non è dunque almeno
un po' avventato pretendete di applicare il principio di causalità a
qualcosa che per definizione è trascendente, fuori dal mondo
conoscibile? Risulta impensabile, del resto, proporre una “fede
nella causalità”. Se si intende farlo, quantomeno si abbia la
dignità di tirar fuori il presunto assassino di x dalla sua cella!
La
questione di Dio ha implicazioni immense. Ma, riguardo alla domanda
posta all'inizio, le risposte praticabili si sono ristrette. Sembra
che l'unico modo di accedere all'idea di Dio sia quello
dell'educazione alla pratica religiosa. L'acqua del battesimo, inizio
di un percorso svolto sempre e comunque all'interno di strutture
create dagli uomini per gli uomini, è forse la prima minaccia
per una facoltà del dubbio che sta sbocciando all'interno della
mente del neonato.