Identificazione mancata



Io sono l’Addetto alla Registrazione delle Entrate, Ufficio 5, Sottosezione 3, ma tutti qui mi chiamano Addetto all’entrata. Non ricordo da quanto tempo lavoro nella Grande Azienda: i giorni si susseguono tutti uguali, come i mesi e gli anni fiscali. 
Alla fine di ogni giornata il Presidente mi da una pacca sulla spalla e mi sorride, soddisfatto. 
Alla fine di ogni mese il Presidente mi da 1100 euro in una busta bianca e mi sorride, soddisfatto. Alla fine di ogni anno fiscale il Presidente commenta con me l’andamento dell‘Azienda, i progressi e i recessi e mi sorride, soddisfatto. Mi dice di pensare a riposarmi, di andare a sonnecchiare su qualche spiaggia tropicale come lui sicuramente farà con la segretaria, all’insaputa della moglie.
Ma io non posso mica. E poi non ne ho mica bisogno. Mia moglie comincia, ogni primavera, la sua tiritera per convincermi a portare i bambini da qualche parte. Ma io non posso mica. Non me la sento di lasciare la città, non voglio allontanarmi dall’ufficio, dalle mie carte tutte in ordine, dal pessimo caffè della macchinetta, dal Presidente che sorridente mi promette un aumento che non arriva mai, prima di darmi una pacca sulla spalla e chiudersi nell’ufficio con la segretaria.
Io sono l’Addetto alla Registrazione delle Entrate, Ufficio 5, Sottosezione 3, e ogni mattina, puntuale, alle 8 sono seduto alla mia piccola scrivania bianca, poggiata su un pavimento bianco, nel mio piccolo cubicolo bianco vicino all’ingresso. Afferro la mia penna bianca, allargo un po’ il nodo della cravatta, e rimango in attesa. Rimango in attesa di un cliente o di un collega, di qualcuno che voglia entrare nell’Ufficio 5, Sottosezione 3. Quando arriva qualcuno, gli occhi mi si riempiono di gioia: finalmente posso fare la mia parte, far roteare il mio ingranaggio in quel complesso macchinario che è la Grande Azienda. “Prego identificarsi” chiedo con la voce monotona più giusta, con la voce che ci vuole, dice il Presidente, per dare un’idea di professionalità, ma che a me ricorda quasi una voce sintetica, come di robot, come di macchina in perfetto funzionamento.
Oggi alle 8 sono arrivato puntuale, con la mia giacca nera, la camicia chiara dal colletto bianco, la cravatta ben stretta. Mi sono seduto e ho atteso gli altri colleghi. A poco a poco sono arrivati, tutti scuri in volto, forse per il sonno, forse per la pioggia che continua incessante da una settimana, forse per altri problemi. Del resto, a me non importa. L’identificazione è un’esigenza che va oltre le futili questioni personali: gli ingranaggi non possono essere né tristi, né felici. Tutti si identificano, tutti mettono la firma nel posto giusto, nel Grande Registro dell’Azienda. 
Tutti oggi sembrano tesi. La Grande Azienda si occupa di molte cose, fa del bene a molta gente, e oggi è arrivata, in un portavalori nero, una strana valigetta. Tutti la trattano con delicatezza, ma io sono inflessibile: anche la valigetta deve identificarsi. Mi dicono che contiene un grosso carico di diamanti, appena arrivati dall’ Africa centrale, presi sfruttando il caos della recente guerra civile. Soddisfatto, la lascio passare, scortata da due agenti dall’aspetto losco.
Si sono ormai fatte le 5, è quasi orario di chiusura. Le mie mansioni alla Sottosezione 3 dell’Ufficio 5 non si limitano alla registrazione delle entrate: devo registrare anche le uscite, e così sono l’ultimo a lasciare l’ufficio. Oggi farò tardi. Quella valigetta che ora è di là, in cassaforte, ha creato parecchi casini a noi impiegati: è come un intralcio nel nostro perfetto meccanismo. Poco male, domani la porteranno via per scambiarla con denaro contante.
Si sono ormai fatte le 7, e si è fatto buio. Sto per andarmene, quando sento un forte stridio. Rimango immobile mentre la porta dell’ufficio si stacca dai cardini. Qualcuno le regge, e la posa con delicatezza a terra. Poi si volta verso di me, sorpreso. Ha indosso un passamontagna, ed è con un altro, anche lui a volto coperto. I due rimangono interdetti per un istante, poi mi puntano addosso due pistole.
Io sono impietrito. Ho molta paura, ma raccolgo le forze e faccio quello che va fatto.
“Prego identificarsi” dico. 
Io sono l’Addetto alla Registrazione delle Entrate dell’Ufficio 5, Sottosezione 3, e questo è il mio dovere.
Uno dei due mi si getta addosso e mi blocca a terra, tappandomi la bocca. 
“Prego identfmmmmm”, cerco di ripetere, ma non riesco a parlare. Anzi, non riesco nemmeno a respirare. Chiudo gli occhi e vedo mio padre, in giacca a cravatta, che tornava esausto dall’ufficio ogni sera e non voleva mai giocare con me. Vedo mia madre, che bruciava i miei disegni e programmava già il concorso per l’ingresso nella Grande Azienda, sulle orme si suo marito. 
Vedo  mia moglie, da ragazza: era bellissima, prima che il tempo e la monotonia le erodessero il corpo e l’anima. Ricordo la nascita di mio figlio, e ricordo che, al suo battesimo, si brindava al futuro Addetto alla Registrazione delle Entrate.
Ho smesso di respirare da alcuni minuti. Sto morendo, credo. 
Quando sono sul punto di perdere i sensi, mi torna in mente che i due rapinatori non si sono firmati nel Grande Registro. Spero che se ne ricorderanno all’uscita.





Questo racconto è liberamente ispirato al principio filosofico dell'alienazione descritto da Marx in molti suoi scritti, e alla figura dell'operaio come mera appendice della macchina nel sistema di produzione, da lui teorizzata.





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